TECNICA MININVASIVA PER LA CHIRURGIA DELLA COLONNA VERTEBRALE

Parlando di colonna vertebrale, si parla di ernia del disco, stenosi, spondilolistesi, sono alcune delle patologie che causano mal di schiena. Questo disturbo influisce sulla qualità della vita, ed è ormai considerato la principale causa di visita medica dopo la malattia cardiovascolare.

In quali casi la chirurgia mininvasiva rappresenta la tecnica di elezione e in quali, invece, è opportuno ricorrere alle tecniche tradizionali?

Ne parliamo con il Prof. Carmine Franco, esperto di Chirurgia Vertebrale, che opera all’ICOT, dove recentemente ha eseguito, su alcuni pazienti, una tecnica mininvasiva che si effettua in due tempi chirurgici nella stessa seduta operatoria.

Come viene eseguita?

La tecnica prevede 2 tempi chirurgici. Nel primo tempo il paziente viene posizionato su un fianco ed attraverso una piccola incisione sul fianco si accede alla colonna vertebrale, esponendo il disco intervertebrale. Questo viene sostituito con una protesi che ridà l’altezza tra le due vertebre con un effetto decompressivo immediato. In questo modo si evita di passare per la parte posteriore, quindi senza trauma sulle radici nervose. Non devono quindi essere esposte e mobilizzate, e non hanno necessità di dover smontare la parte posteriore della vertebra. Questa tecnica viene chiamata XLIF. Nel secondo tempo chirurgico, effettuato sempre nella stessa seduta operatoria, la posizione del paziente viene modificata. Viene posto in posizione prona. Attraverso 4 piccole incisioni, sempre con tecnica mininvasiva, vengono posizionate 4 viti peduncolari. Si completa così l’intervento.”

In quali casi viene eseguita?

Le indicazioni sono molteplici. Ci sono la stenosi lombare, la spondilolistesi ( lo scivolamento della vertebra), le gravi discopatie, pazienti già sottoposti a precedenti interventi sulla colonna, in cui l’intervento tradizionale passando dalle parte posteriore aumenterebbe notevolmente i rischi operatori per il paziente per la presenza di tessuto cicatriziale.”

Quali sono i rischi di questa tecnica?

I rischi sono minimi. Per aumentare la precisione e la sicurezza dell’intervento, viene utilizzato un sistema di monitoraggio neurofisiologico. Vengono così evitate lesioni delle radici che si trovano vicino ai dischi intervertebrali da trattare.”

Quali sono i vantaggi rispetto alla tecnica tradizionale?

Le perdite ematiche sono irrilevanti, la ripresa funzionale è rapidissima, la riduzione delle complicanze e maggiore sicurezza per il paziente. Inoltre i pazienti il giorno dopo sono in grado di camminare autonomamente e vengono dimessi a distanza di 48 ore dall’intervento. I tempi di recupero sono più rapidi e si ritorna alla vita attiva dopo sei settimane.”

In quali casi è necessario invece ricorrere a tecniche tradizionali?

Non sempre la chirurgia mininvasiva rappresenta l’opzione più adatta. L’errore che il neurochirurgo non deve fare è quello di pensare di risolvere tutto con approcci mininvasivi. Un esempio è rappresentato da pazienti in età avanzata, 60-70 anni. Il più delle volte bisogna intervenire con una decompressione associata ad una fissazione strumentata. In quei casi di ernia del disco espulse e scivolate, intraforaminali o extraforaminali, bisogna far capire al paziente che l’approccio mininvasivo non risolverebbe il problema.”

Quali sono quindi le sue conclusioni?

Non si deve generare confusione nel paziente, bisogna selezionare i casi in cui è possibile eseguire le tecniche mininvasive. In questo momento il gold standard della chirurgia vertebrale, però bisogna far capire al paziente che le tecniche tradizionali, quando non vi sono alternative, sono altrettanto efficaci.”

 

Prof. Carmine Franco

Neurochirurgo